L'ARTE RACCONTATA AI COMPAGNI

1
Traccia per la narrazione di Giugno . 2017
arteideologia raccolta supplementi
made n.14 Ottobre 2017
LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ
10
pagina
Elementi e complementi . (preludio)

A margine di una precedente relazione di qualche anno fa, intitolata Una cosa che chiamiamo arte, sono scaturite alcune ulteriori riflessioni orientate a comprendere come anche nelle arti visuali si svolgono e si rintracciano i processi evolutivi e dissolutivi che stanno accompagnando il modo di produzione attuale verso la sua estinzione. Nell’incontro verranno proposti alcuni argomenti e temi specifici adatti ad illustrare tale particolare dissoluzione - ovviamente, tenendo come implicite tutte le analisi già svolte e definitivamente acquisite circa la generale dissoluzione dell’attuale forma sociale.
Qui
di seguito riportiamo la traccia per la "narrazione" del 10 giugno.

ESTINZIONE DELL'ARTE O ARTE DELL'ESTINZIONE?

Un Preambolo
Durante uno degli ultimi incontri settimanali tramite Skype è accaduto che un nostro compagno ci informava che non sarebbe stato presente alla riunione successiva perchè doveva andare a Firenze a vedere la mostra di un artista contemporaneo; e con l’occasione si è parlato un poco dell’arte attuale e di questo artista, scambiandoci qualche opinione al riguardo.
Capita a volte di interpellare qualcuno chiedendogli il parere su una determinata mostra o su una particolare “opera d’arte”. Se notate un certo imbarazzo che accompagna la sua risposta è probabile che ciò sia dovuto al pericolo che corre, ossia al rischio di esprimere un parere che facilmente si trasforma in un giudizio sul gusto di chi lo ha richiesto. E’ una situazione non gradevole da gestire, se il punto non è il giudizio critico ma il gusto personale, che ognuno si è formato e custodisce gelosamente.
Ora, si da il caso che qualche anno fa è stata già svolta una lunga ed estesa relazione sull’arte, che si era tentato di riprendere per sistemarla in una pubblicazione. La sistemazione di quel parlato non siamo riusciti ancora a farla, ma nel rileggerlo sono state stimolate delle problematiche, delle riflessioni, delle considerazioni o delle digressioni ulteriori sull’arte in generale e particolarmente su quelle che una volta venivano dette Belle Arti: pittura, scultura, architettura, ecc.. Non volendo lasciare queste prime notazioni allo stato di intuizioni vaghe, un successivo ricorso a riferimenti bibliografici e altri documenti hanno ampliato il materiale in un elaborato difficile da riassumere in una unica relazione, e forse non sarà possibile esaurirne tutti gli argomenti neppure in più riprese...
Certamente a tutti noi basterebbe ciò che è stato già fatto, o anche poche frasi - come ad esempio quelle contenute nel testo sulla Genesi dell’uomo-industria [1] - per sistemare l’intera faccenda dell’arte in modo definitivo e passare ad occuparci d’altro.
Tuttavia, considerato che di tanto in tanto continua a far capolino nelle nostre riunioni il tema dell’arte, ci siamo decisi a proporre una presentazione sommaria di questo semilavorato, scegliendo alcuni paragrafi che potessero illustrare come anche nell’arte moderna e contemporanea si svolgono e si rintracciano quelle stesse dissoluzioni che accompagnano il modo di produzione capitalistico verso la sua estinzione, e cogliere - se ce ne sono - quegli elementi che anticipano la società futura anche nell’arte e nel piacere estetico di godere.
Per questa occasione ci aiutiamo a partire tenendo conto proprio di un brano estratto dal testo citato sull’uomo-industria, e precisamente là dove si dice che   

... non c'è nessuna differenza fra il motore che esce nuovo di fabbrica e quello prelevato dal demolitore e collocato su di un piedistallo dallo "scultore" pop. Senza contare che nei musei di arte moderna si espongono oggetti di uso comune, come cavatappi, stoviglie, poltrone e lampadari. Come fa notare Leroi-Gourhan, la cosiddetta arte ha solo 50.000 anni, 15.000 se consideriamo raffigurazioni complesse, meno di 200 se l'intendiamo come merce, mentre l'industria ha almeno 4 milioni di anni, cioè l'età degli ominidi. Quindi la vera divisione è nel passaggio dall'industria umana alla merce, non dalla tecnica all'arte ... Togliere la conoscenza dalle grinfie del Capitale, questo è il vero problema.[2]

Troviamo qui gli enunciati entro i quali vorremmo mantenere la nostra relazione di oggi, ossia:
1. Le arti visuali (soprattutto pittura, scultura, architettura ecc.);
2. Queste arti nell’epoca della loro producibilità come merci;[3]
3. L’arte nelle grinfie del Capitale. 


Rinascimento elettronico: parodia o rivoluzione?
 
“Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale”
Con queste parole iniziano i quaderni dei Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica; e se noi dovessimo mai considerare i nostri appunti come dei lineamenti fondamentali dell’arte, non troveremo altro modo migliore per iniziare. E poiché, sempre qui, poco oltre troviamo il passaggio per cui: 

Se non esiste una produzione in generale, non esiste nemmeno una produzione generale. La produzione è sempre una particolare branca della produzione... oppure è una totalità di branche di produzione...[4]

... potremmo anche precisare che oggetto dalla nostra analisi è la produzione materiale dell’arte - se non fosse troppo ambizioso un compito così annunciato. Ma dobbiamo abbassare le penne, e iniziare avvertendovi che non ci ha interessato affatto porci la domanda metafisica: cosa è l’arte in generale (come fosse un ente assoluto), ma farci la domanda materialista di come è concretamente l’arte di oggi; contando di poterla trattare con procedimento induttivo, risalendo cioè dal particolare al generale, o con modalità empirica, come per esempio adesso iniziando a partire dall’esperienza che potrebbe raccontarvi quel nostro compagno... se è poi andato a Firenze per vedere a Palazzo Strozzi quel Rinascimento Elettronico annunciato dall’artista americano. Possiamo comunque darvene un’idea, visionando assieme a voi una rassegna di immagini che abbiamo preparato; ma potete anche farvene un’idea in seguito, cercando le immagini di questo artista sulla rete web – in particolare quelle che si riferiscono ai lavori esposti a Palazzo Strozzi, ma anche a quelli installati nel 2014 nella cattedrale di Saint Paul a Londra.
Non ci metteremo a disquisire sul valore artistico di queste realizzazioni; abbiamo colto l’occasione solo per mostrare due diverse forme fenomeniche dell’apparire dell’oggetto artistico: da una parte il quadro e la pittura del passato, dall’altra lo schermo e l’immagine elettronica. E ci fermiamo a questa prima evidenza, ossia all’evocazione dell’arte del passato con il suo carattere sacro, che pare garantire il pubblico circa lo statuto degli schermi ad alta definizione, ed è come dirgli che se non proprio di pittura sempre di arte figurativa qui si tratta.
Ma qui a noi tornano in mente alcuni brani iniziali del Diciotto Brumaio:
 

Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno secondo il loro libero arbitrio, né in circostanze da essi stessi prescelte: queste circostanze sono loro date, trasmesse dal passato.[5] 

E in questa mostra il passato è citato letteralmente nelle opere stesse di Viola e nella loro collocazione: il rinascimentale Palazzo Strozzi con dentro i quadri rinascimentali è appunto il passato dell’arte.
Ora: si tratta forse di un passato inteso come il nostro “arco millenario” nel quale ricongiungere l’arte (e l’uomo) del futuro, o invocato semplicemente per sostenere la continuità (e l’immutabilità) dell’arte del presente con quella del passato?... la pittura di ieri con la tecnologia di oggi? L’americano ci toglie dall’imbarazzo premunendosi di proclamare a lettere cubitali, sui muri del palazzo che ospita le sue opere, che “Tutta l’arte è contemporanea, senza tempo, universale ed eterna”.



Con ciò, l’ovvia trasmissibilità delle dotazioni del passato, ricordata anche da Marx, perde ogni determinatezza storica per immobilizzarsi in una sorta di catalogo da cui attingere a piacimento in ogni circostanza. Ma noi leggiamo ancora che
 

...La rivoluzione del 1789-1814 si drappeggiava alternativamente da Repubblica romana o da Impero Romano, e la rivoluzione del 1848 non seppe far di meglio che parodiare ora il 1789, ora la tradizione rivoluzionaria del 1793-95... In queste rivoluzioni, la resurrezione dei morti serviva dunque ad ingrandire le nuove lotte, non a parodiare le antiche; a esagerare nell’immaginazione il problema posto, e non a fuggire davanti alla sua soluzione nella realtà; a rievocare lo spirito della rivoluzione, non lo spettro.[6]

Se in questo recente lavoro del video-artista americano ci troviamo davanti ad una parodia dell’antico sub specie elettronica, potremo anche deciderlo continuando a leggere dal 18 Brumaio: 

... lo scolaro che ha studiata una nuova lingua la ritraduce sempre nella lingua materna: ma se non si è appropriato lo spirito della nuova lingua, non può liberamente rendere in essa il suo pensiero  fino a che egli non giunga a trattarla senza reminiscenze, dimenticando nella nuova lingua quella dei suoi antenati. 

Non vogliamo arrivare ad una risposta circa il carattere di queste specifiche opere; intendevamo soltanto accennare alle problematiche che possono presentarsi quando l’osservazione è condotta sul filo della nostra letteratura. Quello che invece volevamo anzitutto farvi presente è la diversità con la quale viene messa in mostra la pittura di ieri e di oggi, e richiamare nella vostra memoria le infinite varietà di oggetti e prodotti esposti in musei o gallerie d’arte. Sapete tutti che spesso in questi posti vi si trovano oggi giorno dei veri motori e altri prodotti d’uso comune, posti tuttavia sui piedistalli istituzionali del capolavoro; vi avrete anche visto corpi vivi di uomini o animali, esposti tutti indifferentemente per ottenere la medesima considerazione e deferenza richiesta per le opere antiche, classiche o tradizionali.
E’ anche utile notare che nei musei di arte antica, frammiste ad opere di varia natura e provenienza, sono presenti anche molte opere di arte sacra del passato, tolte dai luoghi per i quali erano state prodotte per un uso religioso, e dunque sottratte al loro specifico sistema semantico, dal quale traevano ogni significato. In questi templi consacrati all’arte sembra proprio aver agito un unico criterio ordinatore: l’indifferenza [7]ed è questo un carattere che la merce condivide con il lavoro salariato, la quale consente a tutti gli oggetti di liberarsi dalla loro natura originaria per procurarsene un’altra nel mondo capitalistico, anche nelle fattispecie di opere d’arte.
Fatto sta che, davanti ad una fenomenologia dell’oggetto artistico così diversificata ed estesa da poterlo ravvisare in ogni cosa e in ogni dove, ci troviamo smarriti come lo sarebbero gli archeologi di fronte ad una massa trabocchevole di reperti dall’uso troppo incerto e vago che rischiano di venire interpretati con il ricorso a criteri estetici moderni, e pertanto  «non bisogna prendere troppo sul serio certi graffiti o certi punti colorati, eseguiti per puro caso...» - raccomanda l’archeologo.[8]
Noi dunque cercheremo di stare attenti, di fissare certi criteri di riferimento per comprendere e spiegarci il cammino non arbitrario e le circostanze non prescelte che hanno portato l’arte attuale a manifestarsi in questi modi così difformi nei quali oramai l’oggetto estetico o artistico preso isolatamente fuori da contesti che possono certificarne la natura, risulta di difficile se non di impossibile identificazione tra la fantasmagoria di altri oggetti e situazioni delle attuali manifestazioni di un’Arte che si mimetizza perfettamente nell’ammasso vulcanico e mirabolante di tutte le altre merci... Ma se è divenuto un problema addirittura il semplice “riconoscimento” dell’opera d’arte, sappiamo anche che ciò significa che siamo prossimi ad una sua soluzione, poiché
 

a guardar meglio, si noterà sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali per la sua soluzione sono già presenti o almeno in via di formazione.[9]  

E noi cercheremo di guardar meglio, adeguandoci al contegno critico che l’arte moderna sembra richiedere. Ma è anche possibile che dall’incursione su questo terreno scivoloso e poco praticato dalla nostra letteratura, alla fine ne usciremo con una deludente lista di questioni irrisolte: si tratterà nel caso di verificare se almeno tali questione sono state sistemate nei termini corretti ai nostri fini. Tralasceremo ovviamente di ripetere quelle cognizioni generali comunemente acquisite dalle varie trattazioni di scuola marxista - la quale fa dipendere ogni produzione materiale o immateriale da cause del tutto reali, dallo sviluppo dei mezzi di produzione a disposizione della società, e non da cause mistiche o dalla natura dell’infinito dello spirito assoluto, eccetera, eccetera...[10]
Notava Walter Benjamin che 

…quanto più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e quello della mera fruizione da una parte del pubblico divergono. Il convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo viene giudicato con ripugnanza.
Constatata una divergenza nell’opinione del pubblico dell’arte, la domanda principale dovrebbe spostarsi a monte dell’evidente divario tra le forme tradizionali e quelle moderne della produzione artistica, ossia: come mai l’arte è arrivata a criticare sé stessa e il proprio oggetto, i propri modelli e sistemi linguistici di riferimento.
Sappiamo già che per noi la risposta va cercata nel passaggio cruciale dall’industria umana alla merce, con il quale tutte le certezze acquisite in precedenza prendono a vacillare per trovare concordanza col modo di produzione capitalistico che avvia dei processi di revisione nei vecchi criteri in fatto di arte.

L'oggetto artistico e la sua riconoscibilità

Tutti noi sappiamo bene a cosa ci riferiamo quando usualmente parliamo di arte figurativa, di scultura o di pittura.  Ne abbiamo tutti fatto esperienza dentro e fuori dai musei, e altri esempi li vediamo appesi proprio alle pareti di questa stessa stanza.
Per il momento vogliamo fare il possibile affinché l’oggetto della nostra conversazione si possa limitare alla produzione materiale di quelle opere che convenzionalmente chiamano “opere d’arte”, e che, nella loro massima espressione ed esemplarità, sono raccolte nei Musei d’arte antica, moderna o contemporanea. Questo discorrere su un luogo comune potrebbe apparire inutile, ma serve a considerare che abbiamo tutti la necessità di mettere ordine nelle serie degli oggetti percettibili ai sensi per dotarci della facoltà di discernimento nei riguardi degli oggetti che affollano il mondo.
In ambito artistico, istituzioni pubbliche o accessibili al pubblico (come ad esempio i Musei o le chiese, le botteghe antiquarie, le collezioni private o le rassegne di arte, ecc.) rappresentano tuttora le principali fonti di informazione per regolare questa facoltà sulla base di analogie formali con gli oggetti che in questi luoghi autorevoli e stimati vengono esposti all’ammirazione del pubblico o dei fedeli. E’ qui che il senso comune attinge e trova conferma della validità dei canoni e requisiti per mezzo dei quali distinguere senza esitazioni, tra tutti gli oggetti della vulcanica produzione di merci, un qualunque artefatto d’uso ordinario da un oggetto estetico, e questo da un’opera d’arte, un tessuto stampato da un dipinto ad olio, un suppellettile da una scultura, una pressa idraulica da un monumento, il padiglione di una fiera da un’architettura, ecc.
Tuttavia, nonostante il suo dominio materiale e spirituale, economico e ideologico, alla borghesia e ai suoi ideologi l’arte del XX secolo è iniziata procurando dei grattacapi proprio a questa elementare attività di selezione richiesta allo sguardo immediato.[11]

Una recente storia dell’arte del ventesimo secolo [12] si apre con l’episodio di una controversia giuridica del 1926 tra l’amministrazione delle dogane statunitensi e un collezionista americano che aveva acquistato “L’uccello nello spazio”, una scultura di Costantin Brancusi esposta con circa altre venti sculture alla Galleria Blummer di New York. Si trattava in breve di stabilire la tassa su un oggetto di dubbia identità che aveva passato la dogana senza voler essere riconosciuto dall’amministrazione come un’opera d’arte, e quindi classificato e registrato come “arnese da cucina o supporto da ospedale”.[13]
La legislazione americana dava allora una definizione restrittiva delle opere di scultura: queste dovevano essere realizzate da un “artista professionista”, tagliate e plasmate a modello della natura, essere originali, non prodotte in serie e prive di ogni funzione pratica... e al doganiere americano signor Kracke non pareva proprio che l’oggetto in possesso di Brancusi possedesse tali requisiti. Si intentò una causa che durò due anni, e solo dopo aver dibattuto punto per punto le caratteristiche richieste dalle legge all’opera d’arte, il tribunale dovette infine argomentare che mentre la giurisprudenza più antica non avrebbe certamente inscritto l’opera di Brancusi nella categoria delle opere d’arte, tuttavia nel frattempo si era
 

...sviluppata una tendenza artistica cosiddetta moderna i cui fautori mirano a rappresentare idee astratte più che a imitare oggetti naturali”, e che pertanto “la loro esistenza, così come la loro influenza sul mondo dell’arte, siano fatti degni di essere riconosciuti e presi in considerazione da parte dei tribunali.

Così il giudice americano ha dovuto puntellare una fragilità dei criteri estetici canonizzati ricorrendo ad una  categoria non estetica ma sociologica: l’opinione del mondo dell’arte.
Sembrerebbe proprio che il filisteismo del “comune senso del pudore” doveva trovare il suo corrispettivo in un “comune senso dell’arte”.
Lo storico che riporta l’episodio fa notare che davanti alla tela ad olio  dell’Olympia di Manet esposta al Salon del 1865 molti visitatori si erano sentiti offesi e avevano espresso il loro vivo dissenso, ma nessuno aveva messo in discussione il fatto che si trattasse di un’opera di pittura, mentre davanti all’opera di  Brancusi il pubblico si divideva non solo tra ammiratori e perplessi, ma tra chi non la intendeva neppure come una scultura o un’opera d’arte. 

…uno dei tratti dominanti del moderno è proprio quello di avere definitivamente messo in crisi le certezze più consolidate, sempre desunte dall’esame delle opere del passato, sia pure di quello recente.[14]

Così ora, l’opera d’arte contemporanea può essere conosciuta, nella sua genericità di oggetto e di cosa, sostanzialmente alla sola condizione di essere ri-conosciuta a priori come opera d’arte; pre-giudicata e messa così al riparo da tutti gli altri oggetti del mondo. La sentenza del giudice americano risolveva un problema fiscale, ma poneva un dilemma filosofico che continua tuttora ad essere dibattuto dall’estetica contemporanea.[15] 

In effetti, piaccia o meno, la “scuola moderna” non si è accontentata di capovolgere le categorie estetiche. Non si tratta più solo di discutere le qualità di un’opera, riuscita o fallita, ma di sapere se tale oggetto, produzione o proposta è o non è un’opera d’arte… La crisi non è di data recente. L’intero complesso della modernità è accompagnato da dissensi di fondo, che non smettono di dividere gli artisti, i critici, il pubblico…[16]

Già con gli Impressionisti, ai valori di tradizione e continuità vengono  sostituiti quelli di innovazione e rottura, e inizia a formarsi un paradigma generale che richiede all’arte e agli artisti la rottura degli schemi; rotture che diverranno sempre più continue e incalzanti.
Così, dalla fine del secolo XIX il termine di avanguardia (già utilizzato all’epoca per una raccolta di scritti sulla pittura impressionista) inizia a scandire le rotture operate dalle varie correnti artistiche che si succedono, segnando via via il corso dell’arte moderna all’insegna di sempre nuovi orientamenti, sempre al passo con l’affermarsi del capitalismo industriale e degli sviluppi della sua tecnologia, scienza, ideologia ecc.
Si diffondono nella coscienza comune i paradigmi dell’artista maledetto o della coazione a infrangere i codici artistici (linguistici) ed estetici (filosofici), che vengono ben presto utilizzati anche come strategie personali per raggiungere i propri scopi - i quali non sono più necessariamente connessi alle problematiche di una comunicazione descrittiva-imitativa, espressiva o analitica, ecc., ma direttamente al successo e alla fama personali, ossia, alla riuscita di mercato. Non va comunque ignorato che le dinamiche che portano al successo di mercato possono essere dirette e governate ma non create dal nulla; sono cioè organiche in ultima analisi al funzionamento del sistema sociale nella sua complessità, e il successo, di un artista o di una corrente, non è  un dato fittizio se poi esercita la sua influenza negli sviluppi formali del sistema dell’arte.
Forse è troppo facile cogliere un nesso tra la spietata concorrenza economica e la “necessità” di procurarsi uno “stile personale” per farsi largo tra innumerevoli prodotti simili sul mercato dell’arte. Ma non è colpa nostra se, a ben vedere, lo sviluppo della concorrenza è proceduto di pari passo con la ricerca di uno stile esclusivo a colpi di stravaganza e scandalo, che in questi ultimi anni ha dato prove di aver raggiunto un elevato grado di spettacolarità e buoni risultati nell’intrattenimento, pari almeno a quelli ottenuti dal cinema, dai video giochi o dalle esibizioni circensi, dietro i quali l’arte arranca penosamente. Ma forse è proprio con l’infame concorrenza commerciale che l’Arte dell’epoca della merce trova le condizioni per moltiplicare rapidamente le varietà delle forme e le possibilità estetiche connesse all’immagine, e consumare così ogni risorsa che finora era stata capace  di creare.[17]
E sembra che l’Arte per svilupparsi alla stessa velocità di come intanto si sviluppava la fotografia istantanea, trova il modo di “fare Arte” in un battito di ciglia, e lo fa dando ad ogni cosa esistente la possibilità di diventare Arte. Non è irrilevante se tutto questo inizia ad esprimersi esplicitamente appunto con una ruota di bicicletta e un orinatoio prodotti in serie dall’industria.
Sappiamo tutti che oggi è possibile entrare in un museo di arte contemporanea e trovarsi indifferentemente davanti ad una tela dipinta con un solo colore o anche solcata da un verticale taglio netto; davanti alla riproduzione fotografica della Gioconda a cui l’artista ha messo i baffi e lasciato un commento pruriginoso in calce, o davanti ad un ferro da stiro irto di chiodi, al video di una pantomima ispirata ad una pietà del quattrocento, o all’esibizione di mirabolanti attrezzature da palestra con allegate esortazioni per il pubblico ad utilizzarle senz’altro, ecc.
Sia chiaro che la nostra esposizione si limita solo all’analisi di uno stato di fatto, la cui complessità esorbita dai limiti di questa relazione, perché dovrebbe affrontare sistematicamente tutte le questioni linguistiche, estetiche, artistiche e sociali che “influenzano il mondo dell’arte” - come riconobbe il giudice americano.

Il divenire dell’arte moderna è nella storia della rivoluzione industriale e, con il sorgere del proletariato, essa è anche “nostra”; e il nostro compito attuale non è dare un giudizio di gusto personale o morale ma capire, o cercare di capire cosa il proletariato si sta portando addosso.
Non ci muoviamo in cerca dell’essere (ontologico) dell’Arte, che non è neppure una questione artistica ma estetica - dunque filosofica, dunque ideologica, dunque politica, dunque borghese… risolvibile allora forse solo negando quest’ultima classe sociale e le condizioni materiali della sua esistenza – che constatiamo essersi esaurite.
Ciò che di tutto questo importa intanto vedere, sono le connessioni tra gli oggetti artistici e gli sviluppi tecnologici e sociali avvenuti nell’epoca industriale e poi informatica del capitalismo; ma soprattutto le rotture e il dissiparsi di paradigmi che avevano dato forma alla produzione artistica dell’intero periodo borghese, e che già nell’epoca industriale arrivano talmente estenuati e privi di risorse che Hegel ne teorizza la morte.
Proprio come Marx chiedeva se era possibile Achille con la polvere da sparo o l’Iliade con la macchina tipografica, noi oggi dobbiamo chiederci come sia possibile il dipinto di un cesto di frutta con la macchina fotografica, o la tela dipinta a olio di una crocifissione con il cinema, la televisione o il video digitale.[18]   

La fotografia ha separato l’immagine dal corpo, e ha introdotto la possibilità di possederli separati...[19]  
Con la fotografia e il cinema non scompaiono necessariamente la necessità di rappresentare, disegnare o dipingere una parte della natura o un evento? Non scompare la magnificenza e sacralità del dipinto e del dipingere? Non scompaiono tutte le sfide tecniche affrontate in precedenza? Non scompare l’intero ambiente fisico con tutte le condizioni che hanno reso necessario il sorgere e consentito lo sviluppo della pittura stessa?...
E il doganiere americano Mr. Kracke ha preso un abbaglio, o nella forma pura di Brancusi ha visto giusto lo zampino dell’opera levigatrice della macchina, che dissolve i tratti naturalistici, e della merce, che dissolve i valori sociali dell’arte figurativa?
A questo punto dovremmo domandarci in quale misura e con quali modalità la merce e la produzione industriale delle merci hanno partecipato alla determinazione delle forme e agli sviluppi formali dell’arte moderna - ma non è questo il momento di affrontare la serie di tali argomenti. 
Vogliamo invece farvi notare che le rotture sostanziali del corso dell’arte moderna si sono sincronizzate tutte nei primi due decenni del ‘900, proprio nel periodo finale di quella che non a caso è definita la Belle Époque della borghesia moderna, e a ridosso  della rivoluzione d’ottobre, che aveva mosso la macina della rivoluzione sociale...
Dopo di che c’è stato ben poco più di qualche variazione significativa, e oggi assistiamo forse solo ad una spettacolarizzazione [20] degli originali sviluppi artistici dovuti a quelle avanguardie storiche che forse si sono  presentate prematuramente...
Dal secondo dopoguerra in poi negli ambienti opportunisti, dominati dal culturalismo e dall’intellettualismo organico dei partiti nazionali, mercificazione e spettacolarizzazione erano i termini che esprimevano un modo riprovevole di fare arte e dunque da combattere ideologicamente.
Ma non avevamo forse stabilito che “la vera divisione è nel passaggio dall'industria umana alla merce”?
Poteva forse l’Arte rifiutare il passaggio?
Come scandalizzarci, allora, e partecipare a certi biasimi controrivoluzionari se l’Arte di un’epoca si è concessa interamente all’ordine sociale della sua propria epoca per condividerne il destino?
Dovremmo piuttosto inseguirla sul riprovevole terreno della merce, dove finalmente è scesa, per costringerla a dirci tutto ciò che ci serve ancora di sapere prima di seppellirla.

pagina


NB: Molte note di fondo pagina sono frammiste con appunti di carattere interlocutorio, mantenuti solo in funzione di promemoria di temi o argomenti da svolgere eventualmente in seguito. Ma, a ben vedere, anche l’intero lavoro finora prodotto non è molto più che un registro di annotazioni precauzionali per l’esame di uno specifico campo: un brogliaccio.

[1] - N+1, numero 19, aprile 2006, particolarmente in pag. 27:
- Tra l'altro, da questo punto di vista dev'essere integrato nel discorso sull'uomo-industria anche quello sull'arte, per millenni non distinta dalle altre attività umane e invece da un paio secoli separata, fatta vivere in un suo mondo a parte, estrema contraddizione di una società che assomma la vitalità del cervello globale alla mortifera persistenza della proprietà locale, privata. Se l'industria è la natura antropologica dell'uomo, tutta la produzione artistica non è qualitativamente diversa. Tant'è che le società antiche usavano lo stesso termine per indicare il complesso della produzione umana, téchne per i Greci, ars (artis) per i latini, voce quest'ultima dall'etimologia complessa, risalente ad armus, articolazione del braccio (greco: harmòs), per cui, guarda caso, abbiamo arte, arto, armonia, arma, arnese. Marx ci ricorda che non si può fare distinzione ideologica fra quelle che sono ancora le "forze essenziali dell'uomo" e un'industria creduta puramente strumentale, trattata con criteri di semplice relazione esteriore, utilitaristica in senso banale, perché industria e arte sono la stessa cosa, hanno partecipato come spinta unitaria alla formazione della nostra specie. Se si chiama industria un deposito di pietra scheggiata in una caverna è semplicemente ridicolo chiamare in altro modo, cioè arte, i dipinti che ne ornano le pareti, e religione le tracce di attività rituale che accompagnano entrambi... Togliere la conoscenza dalle grinfie del Capitale, questo è il vero problema.
[2] - Ibidem.
[3] - Prima che l’opera d’arte potesse riprodursi tecnologicamente - come titola il famoso testo di Walter Benjamin - l’opera d’arte ha dovuto prodursi e riprodursi come merce.
[4] - Marx, Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica, ed. La Nuova Italia, Firenze 1968, pag. 7.
[5] - Karl Marx, Il diciotto Brumaio, Roma 1896, Reprint Feltrinelli, pag. 11.
[6] - Ibidem, pag. 13. Nel nostro caso, ci sarebbe cioè da chiedersi se dopo i suoi primi lavori degli anni 80, che forse in qualche modo evocavano lo spirito di una “rivoluzione artistica” (come quella attuata dall’umanesimo quattrocentesco e consolidata dal Rinascimento), Bill Viola continua ad animare di questo spirito i suoi lavori più recenti o si è abbandonato alla semplice reminiscenza del passato dell’arte. (vedi citazione successiva).
[7] - E’ messa in atto e in mostra, una “indifferenza” sulla quale riflettere meglio in seguito. Al proposito annotiamo due passaggi.
- “Del tutto indifferenti, quindi al loro naturale modo d’essere, senza riguardo per la natura specifica del bisogno per il quale esse sono valori d’uso, le merci si sovrappongono in quantità determinate, si sostituiscono una all’altra nello scambio, sono considerate equivalenti, e insomma, nonostante il loro aspetto variopinto rappresentano la stessa unità”. ( K. Marx, Per la critica dell’economia politica, op. cit. pag. 39).
- D’altra parte, quest’astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, come determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. (K. Marx, Lineamenti..., op. cit. pag. 31-32).
Su questo specifico punto dell'indifferenza in arte, siamo stati sicuramente letti ma non citati - ovviamente assieme a Marx che ne è l'ispiratore (cfr. HDS-Maroquineries, 2010, particolarmente nel paragrafo Scarpe e mutande). L'omissione è significativa e ci fa piacere, come ogni altra implicita capitolazione del pensiero borghese.
[8] - Louis-René Nougier, L’arte della preistoria, edizioni TEA, Milano 1994, pag. 110 segg. Prima edizione, UTET del volume La preistoria, appartenente alla Collezione Universale dell’Arte, Torino 1982. – L’autore qui discrimina gli artefatti ordinari, domestici, dalle opere d’arte, poiché ciò che intende trattare è, appunto, l’arte della preistoria... come una produzione differenziata dall’intera industria dell’uomo preistorico. 
[9] - Marx, Per la critica dell’economia politica, ed. Newton Compton, Roma 1972, pag. 32.
[10] - Tipo: “L'intera produzione "artistica" delle società antiche in realtà non era considerata tale, con il significato odierno, ma espressione corrente dell'industria contemporanea, espressione della natura umana.”- N+1, n. 19 cit.
[11] - Non è qui il caso domandarci se o quanto generati o connessi direttamente con la famigerata difficoltà della sottomissione sostanziale dell’arte al capitale (dato che la sua sottomissione formale è indiscutibile).
[12] - Denys Riout, L’arte del ventesimo secolo (Gallimard 2000), Giulio Einaudi edit., Torino 2002.
[13] - Vi starete chiedendo il perché F.J.H. Kracke, il doganiere della nostra storia, si prenda la briga di giudicare o meno un’opera d’arte. Il fatto è che in quel periodo negli Stati Uniti è in vigore il Tariff Act, una legge del 1922 che prevede l’esenzione fiscale (duty free) per le opere d’arte. Lo zelante funzionario, dunque, non essendo d’accordo nel considerare quella strana cosa trovata nella valigia di Brancusi come un’opera d’arte, decide di classificarla nella categoria “Kitchen utensils and hospital supplies” (arnesi da cucina e supporti da ospedale).
Per Brancusi questo comporta una tassa salata da pagare, quella prevista dal paragrafo 399 per l’importazione di manufatti di metallo: il 40% del prezzo di vendita, ossia 240 dollari dell’epoca corrispondenti a circa 2.400 attuali.
Insomma se Brancusi non ci resta proprio bene, immaginatevi Duchamp, che aveva accompagnato per nave lo scultore e che era arrivato ad esporre nove anni prima un vero orinatoio in porcellana.
Brancusi e Duchamp all’inizio rifiutano categoricamente di pagare l’ammenda ma alla fine devono cedere. Tuttavia non finisce lì. Decidono infatti di far causa al governo degli Stati Uniti. La causa durerà due anni.
[14] - Denys Riout, L’arte del ventesimo secolo, cit.
[15] - I testimoni governativi affermano che la scultura è too abstract (troppo astratta) ed è un abuso delle forme. Nel controinterrogatorio, l'avvocato Speiser chiede allo scultore Robert Aitken (esibendo la scultura): «Mr. Aitken, mi direbbe perché questa non è un'opera d'arte?», e Aitken: «Prima di tutto perché non è bella e poi non mi piace". I legali di Brâncusi sostengono che la scultura è un'opera d'arte originale, argomentando dalla legge sul copyright; affermano che il loro assistito non l'ha prodotta for a profit (esibendo una lettera di Brâncusi a Duchamp anteriore alla mostra, dove lo scultore scrive di aver rifinito l'oggetto by hand, cioè con le proprie mani). Ma questo non fa ancora di Brâncusi un artista agli occhi dei legali governativi, né dell'oggetto una scultura, perché nel Tariff Act del 1922, che dispone l'esenzione dal dazio per le opere d'arte, manca un criterio giuridico per individuarle e dunque i giudici devono fare ricorso ad elementi eterointegrativi. Il 26 novembre 1928 i giudici annunciano il loro verdetto assolvendo Brancusi, dichiarando: “L’oggetto considerato […] è bello e dal profilo simmetrico, e se qualche difficoltà può esserci ad associarlo ad un uccello, tuttavia è piacevole da guardare e molto decorativo, ed è inoltre evidente che si tratti di una produzione originale di uno scultore professionale […] Accogliamo il reclamo e stabiliamo che l’oggetto sia duty free”. Così commentano la vicenda con la stampa: “Che abbiamo o no simpatia per le idee nuove o quelli che le rappresentano, pensiamo che la loro esistenza e la loro influenza nel mondo […] vada presa in considerazione”. Il pragmatismo americano si manifesta anche con questo tipo di decisioni. F.J.H. Kracke, il doganiere della discordia, tuttavia, non è dello stesso avviso, e in un’intervista all’Evening Post dichiara: “Se quello dice di essere un artista, io sono un muratore!”.
[16]  - Denys Riout, op. cit.
[17] - Questa ipotesi della concorrenza commerciale come spinta per la moltiplicazione delle forme ecc. (vedi qui anche § Separazioni), potrebbe essere connessa con l’ipotesi del modello di “sperimentazione e decimazione” proposto da Gould per le forme anatomiche diversificate di alcune faune primordiali, che raggiunto un picco esplosivo subiscono una improvvisa decimazione ecc. (vedi materiali § L’arte e l’immagine, Arte 1 prima parte); ma anche con l’esaurimento di risorse di una società che sviluppa tutte le forze produttive che essa è capace di creare prima di scomparire (Marx, Per la critica..., - vedi qui la citazione della nota 51).
[18] - A questo punto dovremmo aprire l’intero capitolo sull’immagine ma estraiamo un brano solo come promemoria: .. Potrebbe anche essere discutibile parlare del periodo attuale come di una epoca della civiltà dell’immagine - cioè di un’epoca particolarmente segnata da una svolta iconica dopo quella linguistica - quando semmai siamo in presenza di una più intensa variazione inflattiva di tutti i mezzi di comunicazione fonetica e iconica; è però  innegabile che stiamo vivendo una fase della modernità nella quale lo sviluppo planetario dei sistemi di informazione ha portato alla creazione di nuove forme di visualizzazione e di esperienza visiva, a nuovi usi sociali dell’immagine, a nuovi contegni critici, di fiducia o diffidenza, verso le funzioni conoscitive o testimoniali delle immagini in generale. In questi ultimi decenni la tecnologia ha offerto alle immagini i mezzi e i modi di replicarsi e ampliato le occasioni in cui, volenti o nolenti, siamo chiamati ad assumere il ruolo di spettatori delle loro fantasmagorie visuali, impastate e impestate con tutta l’ideologia che emana da questa come da ogni altra manifestazione sociale della società capitalistica...
[19] - Parafrasi da Sismondi “Il commercio ha separato l’ombra dal corpo e ha introdotto la possibilità di possederli separati” (citato da Marx nei Grundrisse). Vedi qui, oltre.
[20] - Cioè, lo spettacolo orientato all’intrattenimento per svago e diletto di un pubblico... Ma, a ben considerare, il termine generico non dovrebbe associarsi sempre ad un giudizio svalutativo o spregiativo - per evocare i quali viene invece a volte utilizzato...

IMMAGINI Colonna 1, dall'alto:
[F01] - Locandina della mostra con una immagine tratta dal video Emergence (2002) di Bill Viola, ispirato ad un affresco di Masolino da Panicale del 1424, staccato dalle pareti del Battistero della Collegiata di Empoli.
[F02] - Scritta sui muri d'ingresso del palazzo Strozzi.
[F03] - Constantin Brâncusi, Bird in the Space (1923), bronzo 1,37 m x 22 cm x 16 cm.
pagina